Dazi e transizione energetica: i rischi di un boomerang per l’America

Il nuovo pacchetto tariffario varato dall’amministrazione Trump introduce dazi compresi tra il 10% e il 49% su un’ampia gamma di prodotti, con particolare attenzione alle importazioni da Cina, Europa e Paesi del sud-est asiatico. Una misura pensata per ridurre la dipendenza industriale dall’estero e incentivare la produzione interna, ma che rischia di avere effetti collaterali significativi, soprattutto sulla transizione energetica.

Gli Stati Uniti, oggi fortemente interconnessi alle catene di approvvigionamento globali, potrebbero vedere un rialzo dei costi delle materie prime e dei componenti essenziali per le tecnologie verdi: energia solare, eolico, stoccaggio energetico, mobilità elettrica. Settori strategici che, in questa fase di accelerazione globale verso modelli sostenibili, potrebbero subire un rallentamento proprio a causa delle nuove politiche commerciali.

Secondo Wood Mackenzie, il prezzo del petrolio Brent dovrebbe scendere in media a 73 dollari al barile nel 2025, circa 7 dollari in meno rispetto al 2024. Un calo legato sia alle scelte dell’Opec che all’andamento della domanda globale. Un contesto che potrebbe rendere meno redditizi i progetti di nuova estrazione e rendere ancora più urgente lo sviluppo delle alternative rinnovabili.

Ma l’effetto delle nuove tariffe potrebbe andare nella direzione opposta: complicare la crescita di quei settori che dovrebbero accompagnare il Paese verso l’indipendenza energetica e la decarbonizzazione.

Solare, eolico e batterie: l’impatto dei dazi

Nel solo 2023, gli Stati Uniti hanno importato circa 95 milioni di pannelli fotovoltaici, soprattutto da Vietnam, Malesia e Thailandia. Nonostante la crescita della produzione interna, il settore solare resta dipendente dall’importazione. Con i nuovi dazi, queste forniture potrebbero diventare meno sostenibili dal punto di vista economico. L’industria americana guarda ora a nuovi mercati emergenti, come Medio Oriente e Africa, ma la riconversione delle supply chain richiederà tempo e investimenti.

Ancora più esposto è il settore eolico, che fa largo uso di componenti prodotti in Europa: dalle pale ai generatori, fino ai sistemi elettronici di controllo. Secondo diverse analisi, dazi del 25% su queste componenti potrebbero far lievitare fino al 7% i costi dei progetti eolici, compromettendone la competitività e la fattibilità economica, soprattutto nelle regioni dove il ritorno sugli investimenti è più delicato.

Non meno delicata è la situazione delle batterie e dello stoccaggio energetico. Oltre il 90% delle batterie installate negli Stati Uniti proviene dalla Cina, e le nuove tariffe – che si sommeranno a quelle già esistenti – potrebbero portare l’imposizione su queste celle fino all’82,4% entro il 2026. Un impatto significativo, non solo sulle importazioni, ma anche sulle nuove gigafactory americane, che dipendono ancora da componentistica estera.

Si tratta di un colpo potenzialmente duro per un comparto centrale nella strategia energetica statunitense, che punta sull’accumulo per bilanciare le rinnovabili intermittenti e ridurre la dipendenza dal gas naturale.

Mobilità elettrica e AI: effetti a catena sulle tecnologie strategiche

Nel comparto dei veicoli elettrici, i dazi rischiano di far aumentare il prezzo delle auto EV fino a 10.000 dollari per unità. Un rincaro che potrebbe frenare lo sviluppo di un mercato già in difficoltà a competere con quello dei veicoli a combustione interna, soprattutto in assenza di incentivi su larga scala. Il governo Biden aveva cercato di rilanciare la produzione interna con crediti fiscali, ma la dipendenza da materiali critici importati – come litio, nichel e cobalto – rimane alta.

In questa cornice, il rischio è che la filiera dell’auto elettrica americana venga rallentata nel momento stesso in cui la concorrenza internazionale, a partire dalla Cina, accelera gli investimenti e consolida la propria leadership nel settore.

Secondo il Financial Times, l’effetto domino delle nuove tariffe potrebbe riflettersi anche sul posizionamento strategico degli Stati Uniti nella corsa all’intelligenza artificiale. L’AI, infatti, richiede infrastrutture energetiche potenti e stabili: un rallentamento nello sviluppo delle energie rinnovabili e dello stoccaggio potrebbe rendere meno competitivo il sistema industriale nel suo complesso.

Intanto, la Cina continua a rafforzare la propria rete di alleanze con Paesi emergenti in Africa, America Latina e Medio Oriente, assicurandosi l’accesso alle materie prime e consolidando il controllo sulle filiere produttive delle tecnologie pulite.

Le ricadute macroeconomiche e l’equilibrio da trovare

Oltre agli impatti settoriali, il nuovo assetto tariffario potrebbe avere ricadute significative a livello macroeconomico. I maggiori costi di produzione legati alle importazioni si tradurranno in un aumento dei prezzi al consumo, con conseguente pressione inflazionistica. Le imprese dovranno affrontare margini più stretti, e i consumatori finali rischiano di pagare il prezzo di una transizione più lenta e più costosa.

L’obiettivo dichiarato dell’amministrazione Trump è quello di rafforzare l’autonomia industriale degli Stati Uniti e difendere l’occupazione manifatturiera. Tuttavia, come osservano numerosi analisti, l’efficacia di questo approccio dipenderà dalla capacità di riorientare rapidamente la produzione e sviluppare filiere interne competitive.

Nel frattempo, l’America si trova davanti a una sfida cruciale: garantire la sicurezza energetica e la leadership tecnologica senza ostacolare la transizione ecologica. Per farlo, sarà necessario un equilibrio delicato tra protezionismo e apertura, investimenti pubblici e incentivi privati, politica industriale e diplomazia economica.

In assenza di una strategia integrata, i dazi rischiano di trasformarsi in un boomerang: una barriera pensata per proteggere l’economia nazionale che finisce invece per rallentare l’innovazione, la sostenibilità e la competitività a lungo termine.