Corrono brutti tempi per le foreste tropicali. Mentre noi, paesi ricchi, abbiamo scoperto di avere un animo green e ci battiamo il petto in nome del riscaldamento globale, dell’importanza del rimboschimento e altri nobilissimi intenti, allo stesso tempo contribuiamo a una selvaggia deforestazione dall’altra parte del mondo. Il motivo è sempre lo stesso: soddisfare la domanda del commercio.
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La Cina annuncia politiche verdi ma fa la sua parte nel processo di deforestazione nel sud est asiatico per ottenere legname; il Giappone ha una certa responsabilità nella deforestazione africana per accedere a prodotti come la vaniglia, il cotone o il sesamo. Lo stesso vale per gli Stati Uniti e molti paesi ricchi che dovrebbero avere sulla coscienza il destino delle foreste, soprattutto quelle tropicali.
I dati sono allarmanti. Il recente report del Global Forest Watch fa sapere che solo nel 2020 è stata distrutta un’area di foresta vergine grande quanto i Paesi Bassi e si registra a livello globale un aumento del 12% di deforestazione rispetto al 2019. A farne le spese sono soprattutto il Brasile e la Amazzonia. Tutto questo per questioni commerciali che vanno dalla agricoltura agli allevamenti, dall’estrazione mineraria fino al foraggio e altri prodotti. Tra i più desiderati dai paesi ricchi figurano legname, soia, cacao e altre colture.
Bisogna dunque che la parte del mondo più fortunata faccia di più per proteggere le foreste dei paesi più poveri. I ricercatori del centro giapponese Research Institute for Humanity and Nature fanno sapere: “La maggior parte delle foreste si trova nei paesi più poveri che sono sopraffatti dagli incentivi economici per abbatterle. I nostri risultati mostrano che i paesi più ricchi stanno incoraggiando la deforestazione attraverso la domanda di materie prime. Le politiche che mirano a preservare le foreste devono anche alleviare la povertà. Con la pandemia del coronavirus, la disoccupazione pone maggiori sfide alla conservazione delle foreste nei paesi in via di sviluppo: vogliamo che i nostri dati siano di supporto in futuro nel processo decisionale” per “cambiare le attuali dinamiche”.