Previsioni, stime e modelli matematici. Forse mai come in questa epidemia di Covid-19 hanno fallito tanto. Per citare una proiezione delle più recenti: quella dell’Ihme, organizzazione Usa che fornisce i dati alla Casa Bianca, che calcolava al 19 maggio, ‘zero decessi’ in Italia (quel giorno erano ancora 162) e al 4 agosto 20.300 morti, mentre siamo già a quota 32.486. Ma perché i modelli matematici non hanno funzionato? Secondo Carlo Signorelli, docente di Igiene all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, il problema è nel fatto che alla base delle stime “ci sono i ‘numeri’ e in Italia non sappiamo quanti sono i casi reali”. Concorda l’epidemiologo Donato Greco, oggi consulente dell’Oms, che a questo elemento aggiunge il fatto che “i modelli devono avere ‘memoria storica’” e non valgono “da soli, senza un’intelligence intorno”.  

“Il fallimento dei modelli dipende dal fatto che non sappiamo quanti sono realmente i casi in Italia – spiega Signorelli all’Adnkronos Salute -perché più della metà sono stati asintomatici e probabilmente il 90% non è neanche passato al sistema, ha fatto la malattia e non se ne è accorto”. Inoltre “le notifiche riguardano una parte molto ridotta di tutti i casi reali, tra un decimo e un ventesimo. Dunque, le stime dei modelli vengono costruite su una base che, in questo caso, non solo ha una sottostima dei casi reali, ma anche una sottostima variabile da regione a regione, da provincia a provincia perché influenzata dal numero di test”. Per questo “le previsioni sbagliano in eccesso o in difetto a seconda dei dati considerati”, che nel nostro caso non sono affatto univoci.  

Concorda sul fatto che il fallimento dei modelli matematici sia dovuto a una “incompletezza del quadro epidemiologico reale” anche Donato Greco, epidemiologo di grande esperienza, ex capo del laboratorio di epidemiologia dell’Istituto superiore di Sanità per 30 anni e poi direttore generale della Prevenzione al ministero della Salute dal 2004 al 2008. “Certamente – spiega – siamo davanti a un’epidemia nuova, quindi non tutto era noto, ad esempio il rapporto sintomatici-asintomatici, o l’eventuale immunità di gregge, che ad oggi è lontanissima, visto che non siamo neanche al 3% di contagiati nella popolazione”. Dunque, secondo Greco, “i primi modelli matematici avevano il giusto difetto di essere troppo precoci, c’erano troppi pochi elementi a disposizione, e i modelli – ricorda – servono per interpretare non per ‘predire il futuro'”.  

Ma l’altro elemento, meno ‘fisiologico’, secondo Greco, “è stato il non tenere conto dell’esperienza storica, che – sostiene – è fondamentale. Noi abbiamo 4000 anni di storia delle epidemie, e quelle di virus influenzali sono state tante: non si può non tenere conto di questo e partire basandosi solo su elementi approssimativi, primo fra tutti il numero di contatti delle persone. Per fare un modello – spiega Greco, che è specializzato in Igiene e sanità pubblica, oltre che in biostatistica medica – devi teorizzare quanti contatti una persona avrà ad esempio in mezzo alla strada, e siccome non è che qualcuno li conta, vengono teorizzati in base ad alcuni dati. E questa è una forte fragilità”, sostiene. 

Non solo. “Un modello matematico preso da solo e addirittura, com’è accaduto in Italia, utilizzato per suggerire strategie, da come si devono comportare i parrucchieri alle istruzioni per gli esercizi commerciali, è una fesseria”, ammonisce Greco. “Il modello matematico serve se intorno c’è una ‘intelligence'”, cioè se “l’epidemiologo, l’esperto di sanità pubblica, che usano strumenti diversi, si siedono insieme intorno a un tavolo per lavorare sull’epidemiologia descrittiva, passando poi a quella analitica, con gli studi casi-controllo, di coorte eccetera”.  

Dunque, “l’errore ulteriore lo hanno fatto i tecnici e i politici che hanno sposato immediatamente, passivamente e asetticamente i suggerimenti dei modelli matematici senza che fosse stata fatta ‘intelligence’ intorno”.