“Siamo arrivati al 4 maggio e la situazione ovviamente presenta incognite. Siamo in una regione, il Piemonte, e in una città – Torino – dove il numero di contagi è più alto che nella maggior parte del resto d’Italia. Ma c’è da dire che oggi non è il carnevale di Rio: hanno aperto solo le filiere produttive e pochissime attività frontali. Il tipo di forza di contagio che potrebbe riprendere non è certo quella massima e inoltre oggi il coronavirus Sars-CoV-2 trova molte persone educate nel comportamento e nel distanziamento sociale, che indossano mascherine. Sono freni importanti”. E’ il pensiero di Giovanni Di Perri, responsabile delle Malattie infettive dell’ospedale Amedeo di Savoia di Torino e componente della task force di esperti piemontese.
“In attesa di un vaccino, anche di efficacia intermedia che dia un minimo di riduzione alla pericolosità del virus, la carta vincente è il comportamento individuale e la coscienza del rischio. Senza questo, non c’è App o altro che tenga”, dice all’Adnkronos Salute. “La misura in cui poi tutto questo potrà produrre un contenimento o un mantenimento degli indici” di contagio “entro limiti tollerabili nessuno ha esperienza diretta per prevederlo. Perché questa è stata la tempesta perfetta: abbiamo avuto un virus ad alta contagiosità, che rimane contagioso nella persona per diverse settimane e viene trasmesso nel 40% almeno dei casi da soggetti asintomatici che non si rendono palesi”.
“E’ una situazione – prosegue – molto difficile. Qual è il punto di equilibrio? Sul fronte sanitario, che quanto messo a disposizione per l’assistenza ai pazienti Covid non vada in sofferenza di nuovo. Noi ci dobbiamo preparare e vedere. A fine maggio potremo fare un bilancio di come è andata con le aperture progressive”.
A quel punto, prosegue Di Perri, “potremo avere un’idea della misura su cui tararci, in attesa che la nostra società civile e produttiva possa beneficiare di un vaccino. Perché il punto di arrivo razionalmente sperabile e perseguibile è quello. Poi può venir fuori un antivirale, ma la risposta più idonea mi sembra il vaccino. Analizzando l’infezione da nuovo coronavirus, vediamo che nel 50% circa dei casi è del tutto asintomatica; abbiamo poi un 30% di infezioni paucisintomatiche, con pochi sintomi; e infine un 20% di infezioni che sono più pericolose, ma il 5% di queste diventa di interesse critico e qui si consuma la letalità e mortalità che abbiamo visto. Se riuscissimo a far sviluppare ai soggetti che vengono esposti al virus quel minimo di immunità che riesce a deviare verso forme poco sintomatiche, l’obiettivo sarebbe raggiunto”.
Guardando a come è stata gestita l’emergenza e a come si è arrivati alla tappa del 4 maggio, lo specialista è sincero: “Diciamoci la verità, tutti i Paesi occidentali hanno fatto gli stessi errori – ammette – La misura in cui il virus si diffonde veramente è elevata. Credo che quel che ha messo in crisi ed è stato largamente ignorato è che Sars-CoV-2 si trasmette tanto da soggetti asintomatici. Noi invece abbiamo largamente usato parametri clinici. Lo stesso Istituto superiore di sanità ha sempre detto che occorreva usare i tamponi nei sintomatici. Ci siamo persi così l’altra ‘metà della luna’ che trasmetteva il virus. E abbiamo fatto il lockdown in un momento in cui le nostre case erano piene di infezioni”.
Ora, ragiona l’esperto, “ne abbiamo smaltite la gran parte e riapriamo con un livello di contagio piuttosto basso perché ha smesso di incontrare soggetti vulnerabili”. Con la fase 2 “le occasioni di contagio aumenteranno, ma spero che il comportamento individuale possa limitare il contagio a un livello all’altezza della nostra capacità di risposta”.