di Lucia ScopellitiLa solitudine dei parenti dei malati di coronavirus. Fra “rimpalli di responsabilità”, “call center scatole vuote” e “zero certezze su tamponi, quarantena e condotte da tenere”. Ci si sente così quando, da semplici osservatori esterni della pandemia, “impegnati a eseguire alla lettera ogni ordinanza”, ci si trova investiti in pieno dall’emergenza, “testimoni di una tragedia, come molti altri”. E’ la parabola vissuta da Isabella, avvocato residente a Milano. Il suo punto di vita su quanto sta accadendo in questi giorni cambia da un giorno all’altro, quando ai primi di aprile il marito 51enne viene ricoverato in gravi condizioni in un ospedale della metropoli, l’Istituto clinico Città Studi. Diagnosi purtroppo scontata: Covid-19.
E’ allora, testimonia la donna all’Adnkronos Salute, che si rende chiaro come “la gravità della situazione la stavamo guardando da un oblò”. “Ti aspetti di essere guidata e ti ritrovi a navigare a vista. Sulla carta ci sarebbero regole precise per chi è stato a contatto con un caso positivo. Persino sulla raccolta differenziata, e io questo l’ho appreso giorni dopo leggendo un foglio appeso al portone del palazzo in cui vivo. La mia spazzatura non posso differenziarla, devo sigillarla in un doppio sacchetto e buttarla nell’indifferenziata. E’ una forma di tutela per gli altri, per chi deve occuparsi dei rifiuti. A saperlo, ovviamente”.
“Nessuno sa dirti cosa fare, come comportarti sul fronte pratico e concreto della vita di tutti i giorni. Ho provato a fare tutta la trafila ed è disperante”, riferisce. Il primo passo è stato chiamare il numero ministeriale 1500. “E’ come parlare con un registratore inutile – osserva Isabella -. I volontari ci mettono tanta umanità, ma sono impotenti, possono dare solo informazioni di base, già superate dagli eventi. La prima domanda che ti viene in mente è: io e mio figlio 13enne dobbiamo fare il tampone visto che abbiamo vissuto in casa con una persona positiva al virus, condividendone spazi vitali? Inutile dire che, ancora oggi, non c’è stato nessun tampone per noi”.
Dopo il 1500 “il secondo passo è chiamare il servizio dell’Ats, che solo dopo mia insistenza decide di prendere i nostri dati – prosegue il racconto -. Dati che dovrebbero esistere già: avendo io un parente Covid, sono stati inseriti dal medico di base”. I medici di famiglia sono un altro tassello del sistema e, tiene a sottolineare Isabella, “fanno tantissimo, sono gli unici in grado di darti un aiuto concreto. Il problema sono tutti questi passaggi che visti dall’interno sembrano protocolli inutili. Protocolli inutili che legano le mani dei camici bianchi”.
La donna elogia “l’ottimo operato dei medici. E pensare che io sono stata seguita dal sostituto della mia dottoressa, che è stata 40 giorni in malattia a casa e non ha ricevuto un tampone neanche lei al momento. Il medico che l’ha sostituita mi chiama ancora oggi per accertarsi che tutto vada bene. Anche per lui è stato complicato gestire le cose”. Sull’altra sponda, in ospedale, “gli specialisti che stanno seguendo mio marito si fanno in quattro. Non posso che dire grazie per l’attenzione e la cura che ci mettono in questa situazione drammatica con i reparti pieni di malati”.
Ma intorno è il vuoto. Sono i “percorsi tortuosi” pensati per accompagnare chi vive accanto ai pazienti che “non funzionano” e hanno come effetto quello di “far sentire sole le persone”, dice Isabella. Anche se queste tortuosità cominciano già prima, “dalla difficoltà di far valutare prima di tutto il paziente. Mio marito – ripercorre – ha cominciato a sentirsi male il 25 marzo, aveva una febbriciattola che non superava 37,5. Doveva rientrare il 3 aprile al lavoro, ma nel fine settimana comincia ad avere la febbre molto alta. Arriva il 112 e gli misurano la saturazione: è a 94 e gli operatori dicono che è una situazione al limite, tenuto conto anche di alcuni problemi di salute che lo mettono più a rischio. C’è indecisione sul da farsi, anche perché mio marito vorrebbe aspettare, provare a restare a casa, non è ancora consapevole della gravità della situazione”.
Il giorno dopo la febbre supera 40. “Chiamo di nuovo il 112 – dice Isabella – Arrivano gli operatori e ci passano un medico al telefono”. Sarà lui a decidere. Comincia la trafila. “Mio marito parla al telefono e sembra reattivo. Io insisto. Il medico lo fa camminare, contare, c’è tutta una procedura ben definita” che permette di farsi un’idea della condizione del paziente. E infatti è così che il medico decreta la necessità del trasporto in pronto soccorso.
Mezz’ora dopo la partenza dell’ambulanza, alla porta della famiglia suona anche l’Usca, Unità speciale di continuità assistenziale, allertata 24 ore prima. Quando arriva è troppo tardi, il paziente è già in ospedale. L’uomo verrà ricoverato prima in sub-intensiva e poi in terapia intensiva. Sperimenterà la mascherina e il casco Cpap, verrà sottoposto a vari trattamenti. Ancora oggi è in ospedale, ma è uscito dall’area intensiva. “La mia impressione è che si perda del tempo prezioso tra l’insorgere della malattia e la fase acuta. Forse se non avessi insistito mio marito lo avrebbero dovuto intubare. E’ una malattia dai sintomi subdoli”.
Tornando ai parenti di malati Covid “gli operatori del 112 mi lasciano il numero di un servizio di assistenza – racconta Isabella – è l’ennesimo call center con voce registrata. Il percorso fra numeri da digitare e attese finisce con l’operatore che ripete sempre le stesse cose: si metta in quarantena, sorvegli sintomi e temperatura. Io vorrei sapere come posso sanificare la casa, come mi devo comportare. Se devo andare in farmacia posso uscire o devo affidarmi (come poi ho fatto) ai santi amici?”.
La durata della quarantena è “un altro mistero. Nessuno sa dirti in maniera univoca da quando devi cominciare a contare i giorni. C’è chi dice dal momento in cui si accerta che il parente è un caso di Covid, c’è chi dice dal giorno del ricovero. C’è un aspetto di finta organizzazione che spiazza. Poteva andar bene a inizio emergenza ma ora dovremmo essere più esperti e avere più risposte. E invece no. E’ inaccettabile. E’ inaccettabile che sia solo io a preoccuparmi del potenziale pericolo che rappresento. Se fossi positiva asintomatica?”, si chiede Isabella.
L’ultimo schiaffo arriva dopo l’annuncio della Regione Lombardia che, con una circolare, decreta l’allungamento della quarantena dei casi sospetti fino a 28 giorni. “Che fare a questo punto? Prolungare il nostro isolamento oppure no? Finora mi hanno detto di considerarmi come una potenziale contagiata. Decido di chiamare per chiedere chiarimenti”, dice la donna. Ma sono appena passate le 17 e “ancora una volta ci si trova a parlare con una voce registrata che suggerisce di inviare un’email se non si riesce a contattare il medico di base. Io mi domando come possano fare gli anziani”.
Il giorno dopo Isabella parla con l’operatore Ats. La risposta è una sorpresa: “Riferiscono che i famosi 28 giorni di quarantena non sono ufficiali – spiega – Loro indicano ai conviventi 14 giorni di quarantena dopo l’ultimo contatto con il paziente Covid. Non sanno riferire nulla sul post tampone del ricoverato. Non verificano chi sei e in che struttura è ricoverato il parente. Non chiedono informazioni sulle nostre condizioni. Consigliano di rivolgersi ai servizi sociali. Di nuovo – conclude – è tutto un rimpallo di competenze inesistenti”.