(Adnkronos) – “L’anno scorso abbiamo festeggiato i 100 anni dell’insulina, che è stata una vera rivoluzione perché ha trasformato una malattia che era mortale come il diabete all’esordio in una malattia oggi cronica, degenerativa, come il diabete di tipo 1 che però ruba ancora 12 anni di attesa di vita alle persone, nonostante le migliori terapie che possiamo mettere in campo. Ora stiamo lavorando con intensità per un mondo libero da insulina. Ci piacerebbe che il 14 novembre” in un futuro non troppo lontano “non sia più la celebrazione della Giornata del diabete, ma che diventi il giorno in cui ci sveglieremo e non avremo più bisogno dell’insulina. Per il diabete di tipo 1 le conquiste più rilevanti in questo ultimo anno sono state soprattutto legate agli approcci di medicina rigenerativa”. Un mondo libero da insulina è “il sogno” di Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute (Dri) e della neo costituita Unità di medicina rigenerativa e dei trapianti dell’Irccs ospedale San Raffaele di Milano, e degli specialisti che si occupano della malattia ‘del sangue dolce’.
La strada per raggiungere questa meta potrebbe passare per quelli che vengono chiamati “farmaci viventi”, spiega all’Adnkronos Salute. “Il diabete di tipo 1 è caratterizzato dalla perdita della funzione di secrezione di insulina da parte delle cellule che la producono, le quali vengono distrutte dal sistema immunitario. Dopo anni in cui abbiamo tentato di ricostruire queste cellule usando i donatori d’organo come sorgente, negli ultimi anni si è sviluppata una nuova tecnologia che permette di superare i limiti esistenti, cioè non avere abbastanza donatori per curare tutti i pazienti con diabete e dover utilizzare necessariamente l’immunosoppressione”, perché il donatore d’organo ha un diverso sistema di esprimere le proteine e quindi va evitato il rigetto.
“La grande novità parte circa 14 anni fa in laboratorio, e arriva 6 anni fa ai primi tentativi nell’uomo. Nell’ultimo anno si è riusciti a dimostrare che è possibile ottenere insulino-indipendenza e quindi la guarigione dal diabete, mettendo in campo delle cellule che producono insulina – spiega l’esperto – derivate da cellule staminali pluripotenti. E’ una svolta potenziale, perché l’ultimo miglio è sempre quello più difficile da percorrere. Ma oggi abbiamo tutti gli strumenti e la preparazione clinica per applicare la terapia cellulare al diabete”.
Questo, ricorda Piemonti, “è stato l’anno in cui nelle linee guida ministeriali è stato inserito, in alcune condizioni di malattia, il trapianto di isole pancreatiche, che è una terapia cellulare del diabete ora standardizzata. Su questa base si è cominciato a cambiare fondamentalmente la sorgente delle cellule. E si è ottenuto un risultato importante: il primo paziente negli Usa trattato con queste cellule e diventato insulino-indipendente. Potenzialmente dunque, oggi potremmo slegarci dal problema della donazione, risolvendo il primo ostacolo che impedisce che una cura simile possa essere estesa a tutti i pazienti col diabete di tipo 1 e anche in una parte di quelli con diabete di tipo 2”.
Sull’immunosoppressione, prosegue, “esistono più approcci che possono essere utilizzati: alcuni sono in pipeline per i primi studi clinici e presumibilmente entro un anno avremo anche risultati su questo, ma è un’area che ha ancora bisogno di prove sull’efficacia nell’uomo, non solo nei modelli animali e in vitro. Per superare la necessità dell’immunosoppressione una strategia, per esempio, è mettere queste cellule all’interno di alcuni ‘contenitori’ che impediscono al sistema immunitario di riconoscerle come estranee. Oppure si possono aggiungere o togliere nelle cellule alcuni geni che permettono il riconoscimento da parte del sistema immunitario. E’ come se il sistema immunitario avesse un lettore di codici a barre, come quelli che usiamo al supermercato, e in ogni cellula ci fosse un codice a barre. Se il lettore non riconosce quel codice, attacca la cellula. Ma questo codice oggi è modificabile in modo da ingannare il sistema immunitario. Con le staminali – sottolinea Piemonti – basta che lo facciamo con una cellula e tutte quelle che ne deriveranno porteranno la stessa modifica”.
L’orizzonte temporale perché la promessa della medicina rigenerativa si concretizzi? “E’ difficile definirlo – riflette – ma credo che nei prossimi 5 anni avremo concluso la prima fase di sperimentazione nell’uomo, che ci dirà quanto questo tipo di approccio è in grado effettivamente di curare. Si passerà poi agli studi di fase 2-3, con un numero più consistente di persone. Si capirà anche chi può essere curato. E se questi studi porteranno alla conferma della validità dell’approccio, poi estenderlo alla popolazione con diabete sarà solo una questione legata alla capacità di produzione, ma chi ha investito su questo tipo di modello di medicina rigenerativa si sta già attrezzando. Perché è l’orizzonte più interessante dei prossimi anni: poter applicare farmaci viventi non solo ad alcune malattie rare, ma anche a patologie che possono avere un maggior impatto”.
Resta il nodo dei costi. “Le terapie cellulari in generale hanno ancora dei costi molto elevati. Quelle entrate in commercio vanno da qualche decina di migliaia di euro fino a più di un milione di euro. Al momento, essendo indicazioni rare, si può immaginare di spendere tanto, ma se si vuole applicare questa tipologia di trattamento su larga scala solo pensando ai diabetici di tipo 1 sarebbero 200-300mila persone, numeri non piccoli. Questi aspetti saranno una scommessa, che dipende dal successo che dimostreranno questi farmaci viventi. Noi ci stiamo investendo”, spiega Piemonti. Tanto che, evidenzia, “oggi abbiamo deciso di costruire un’unità vera e propria di clinica dedicata alla medicina rigenerativa e dei trapianti, con l’obiettivo di implementare questo tipo di approccio. Credo che sia un dovere della comunità scientifica cominciare a prevedere che nei prossimi anni avremo a che fare con malattie trattate sempre di più con questo tipo di farmaci che richiedono una ‘expertise’ diversa rispetto ai tradizionali e anche un modello organizzativo diverso – osserva l’esperto – Oggi siamo abituati ad avere al letto del paziente il medico, ma quando si lavora con queste terapie c’è anche il biologo delle staminali, il bioingegnere, è una comunità molto più allargata e multidisciplinare. Crediamo molto in questa prospettiva. E se la terapia ha successo senza immunosoppressione, secondo me ci vorrà poco perché si cominci a produrre su grande scala”.
La scienza, conclude Piemonti, “può indicare che esiste un modo” per affrontare un problema. La velocità e la possibilità di perseguirlo dipendono da scelte molto più ampie, che hanno a che fare con modelli economici che supportino questa modalità indicata dalla scienza, e modelli culturali che facciano altrettanto. Deve essere un’alleanza di tutti gli attori, non solo gli scienziati o i medici, ma tutto il sistema socioculturale, politico, economico. Tutti devono ragionare in una maniera che permetta in parte di uscire dalla dinamica in cui si rincorre sempre la malattia, e si va a curare il paziente in una fase in cui si è già ‘persa la battaglia’, e si cominci invece a ragionare per risolvere queste malattie, prevenendole o curandole in maniera definitiva. Togliere quell’etichetta di cronicità che oggi sta diventando un peso insopportabile per chi ha la malattia cronica – in termini psicologici e di qualità di vita – ma anche per i sistemi sanitari che oggi come oggi non reggono più. Questa è la scommessa – rimarca lo scienziato – che sta dietro a questo passaggio culturale di utilizzare le terapie rigenerative”.