Coronavirus, nel Dna lo ‘scudo del Sud’

di Paola Olgiati 

Uno tsunami devastante al Nord, un’onda più clemente al Sud e nelle Isole. Che cosa ha fatto la differenza nell’epidemia di Covid-19 in Italia? Dopo che “sono state proposte diverse ipotesi tra cui le diversità climatiche, ma nessuna sembrerebbe giustificare la disparità numerica nei contagi”, il gruppo dello scienziato italiano ‘emigrato’ negli Usa Antonio Giordano ha pensato di scandagliare il Dna a caccia di un possibile ‘scudo genetico’ che potrebbe avere protetto metà della Penisola.  

I dati conclusivi dello studio sono pubblicati sull”International Journal of Molecular Sciences’. E svelano l’esistenza di due geni che “potrebbero conferire maggiore suscettibilità all’infezione” da Sars-Cov-2, spiega all’Adnkronos Salute Giordano, fondatore e direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine della Temple University di Filadelfia, professore di Patologia all’università di Siena, e che “differiscono per distribuzione nelle popolazioni delle varie regioni, con un sensibile divario Nord-Sud”. Più diffusi al Settentrione, meno al Meridione.  

L’idea che esistesse una sorta di difesa innata anti-coronavirus fra gli abitanti delle aree italiane meno colpite era stata anticipata da Giordano e colleghi a fine maggio in un articolo su ‘Frontiers Immunology’. Ora la conferma, con la scoperta di “due alleli dell’Hla (sistema antigenico dei leucociti umani), un insieme di geni altamente polimorfici che hanno un ruolo chiave nel modellare la risposta immunitaria antivirale”, che “correlano positivamente con i casi di Covid-19 registrati nelle diverse province del nostro Paese in periodo di piena pandemia”. Si chiamano Hla B44 e C01 e potrebbero aver favorito l’azione di Sars-Cov-2 in Lombardia e nelle altre zone travolte dalla pandemia. 

Il lavoro nasce dalla collaborazione di un team multidisciplinare composto, oltre che da Giordano, da Pierpaolo Correale e Rita Emilena Saladino, del Grand Metropolitan Hospital ‘Bianchi Melacrino Morelli’ di Reggio Calabria; Giovanni Baglio e Pierpaolo Sileri, del ministero della Salute italiano e dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano; Luciano Mutti, dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine; Francesca Pentimalli, dell’Istituto tumori di Napoli, Irccs Fondazione Pascale. 

L’équipe ha condotto “uno studio geografico, di tipo ecologico”, per valutare la possibile associazione tra la prevalenza di alleli Hla e l’incidenza di Covid-19 nelle 20 regioni italiane e nelle loro province. I dati relativi alle frequenze alleliche Hla, e alla loro distribuzione nelle varie regioni, sono stati ottenuti dal database pubblicato dal Registro italiano donatori di midollo (Ibmdr), che include circa 500mila donatori volontari di cellule staminali emopoietiche provenienti da tutta la Penisola. Gli autori hanno selezionato gli alleli Hla che mostravano una diversa frequenza nelle varie regioni della Penisola, per valutare se fossero correlati all’infezione da coronavirus Sars-CoV-2. Hanno così identificato “una serie di 7 alleli Hla di classe I che mostravano un’associazione positiva con i dati di incidenza Covid-19 forniti dalla Protezione civile, e 3 alleli Hla di classe I che mostravano un’associazione negativa”.  

Gli scienziati hanno poi proceduto a quella che in gergo tecnico si definisce “analisi di regressione multivariabile per esaminare gli alleli Hla indipendentemente l’uno dall’altro, così da escludere un eventuale effetto confondente reciproco, e includendo anche le regioni nel modello come possibili fattori confondenti”. Questo esame ha dunque mostrato che “tra i 10 alleli, solo gli alleli Hla B44 e C01 mantenevano un’associazione positiva e indipendente con l’incidenza di Covid-19, suggerendo che queste varianti potrebbero essere permissive all’infezione virale”. La ‘prova del 9’ è stata trovata in Emilia Romagna e nelle Marche, aree che hanno mostrato notevoli differenze intraregionali dei tassi d’infezione, inspiegabili all’interno delle province. Qui “la prevalenza dell’allele B44 sembra quasi esattamente predire l’incidenza di Covid-19”. 

“Non è sorprendente che sia l’allele Hla B44 che il C01 siano stati precedentemente associati a malattie autoimmuni infiammatorie, e che C01 sia stato correlato a infezioni seno-polmonari ricorrenti”, afferma Correale, direttore dell’Unità medica di Oncologia del Grand Metropolitan Hospital ‘Bianchi Melacrino Morelli’ di Reggio Calabria, autore principale dello studio. “Ciò evidenzia la capacità di questi alleli Hla di innescare reazioni immunologiche inadeguate nei confronti di specifici antigeni del Sars-Cov-2”.  

“L’identificazione di alleli Hla permissivi o protettivi nei confronti dell’infezione da coronavirus potrebbe fornire informazioni preziose per la gestione clinica dei pazienti, oltre a definire priorità nelle future campagne di vaccinazione in un modo facile ed economico”, dichiara Mutti dello Sbarro Institute, co-primo autore dello studio. “Nonostante i limiti intrinseci degli approcci ecologici – sottolinea Baglio, epidemiologo del ministero della Salute e coautore dello studio – questo tipo di studi ha il vantaggio di poter considerare un gran numero di casi che sono prontamente disponibili attraverso set di dati pubblici. Gli studi geografici, infatti, sono spesso i primi a identificare i fattori di rischio per una varietà di malattie. Saranno poi necessari studi caso-controllo per confermare questi risultati in coorti di pazienti Covid-19”, puntualizza l’esperto. “Speriamo che ciò sia fattibile in tempi ragionevoli, perché la ricerca traslazionale in Italia incontra ancora molti ostacoli”, osserva Giordano. 

“Il sistema Hla – commenta ancora Giordano – è estremamente polimorfico e svolge un ruolo cruciale nei meccanismi di difesa immunitaria del nostro organismo. Diversi studi hanno già evidenziato come esista una correlazione tra alleli del sistema Hla e grado di suscettibilità ad alcune infezioni virali. Il nostro studio ecologico ha quindi valutato la frequenza dei diversi alleli Hla nelle varie regioni italiane, assumendo come campione di riferimento le frequenze distribuite nella popolazione di donatori di midollo, e l’ha associata all’incidenza di Covid-19. E’ emerso appunto che in particolare 2 alleli Hla di prima classe, B44 e C01, che differiscono per distribuzione nelle popolazioni delle varie regioni con un sensibile divario Nord-Sud, correlano positivamente con i casi di Covid-19 registrati nelle diverse province italiane in periodo di piena pandemia”.  

“In sintesi – conclude il ricercatore – gli alleli Hla B44 e C01 potrebbero conferire maggiore suscettibilità all’infezione da Covid-19, ed è in corso uno studio caso-controllo su pazienti di tutta Italia in cui è stata riscontrata positività all’infezione per verificare quanto è emerso dal nostro studio ecologico”.