È una delle cause più comuni per cui si richiede una visita dal gastroenterologo. In Italia e nel mondo ne soffrono circa 2 persone su 10, in prevalenza donne. È la Sindrome dell’intestino irritabile (IBS), una condizione benigna spesso scatenata da stress e ansia, di cui si sa ancora poco ma che – secondo un recente studio pubblicato su Nature – colpisce il 20 per cento della popolazione mondiale dopo un pasto. “I motivi perché questo avviene non sono chiari – ammette Giovanni Sarnelli, Professore di Gastroenterologia all’Università degli Studi di Napoli Federico II e membro della Sige, Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva – ma riguardano l’intera popolazione occidentale e i Paesi più avanzati. Questo dato suggerisce che fattori legati allo stile di vita e a regimi dietetici globalizzati possano avere un ruolo preponderante, rispetto a fattori legati all’etnia. Inoltre, negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un radicale cambiamento nei processi di produzione agro-alimentare, con il ricorso a tecniche di conservazione e di raffinazione degli alimenti, che mettono sotto stress il nostro sistema digestivo”.
Qual è il meccanismo alla base del dolore addominale indotto dal cibo? “Lo studio in questione – sottolinea Sarnelli – conferma evidenze già precedentemente riportate che indicano che alla base del dolore addominale ci sia una anomalia negli scambi che normalmente avvengono tra cellule immunitarie e nervi della mucosa intestinale. Nello specifico, alcuni alimenti stimolano i mastociti (cellule immunitarie normalmente coinvolte nelle reazioni allergiche) che rilasciano eccessive quantità di alcuni mediatori, come ad esempio l’istamina, che è capace di agire direttamente sui nervi intestinali comportandone una eccitazione eccessiva. Ad ulteriore conferma di questo fenomeno va anche detto che nella mucosa dell’intestino di questi soggetti i mastociti sono anatomicamente localizzati a più stretto contatto con i nervi, facilitandone ulteriormente la stimolazione ed attivando i riflessi nervosi che portano al dolore. Inoltre, non dimentichiamo che l’intestino è il nostro “secondo cervello”. Il vecchio adagio che recita: “pensare con la pancia” è assolutamente veritiero. In tutto l’apparato digerente, dalla bocca all’intestino, è infatti presente un vero e proprio sistema nervoso definito enterico, che è costituito da circa 100 milioni di cellule nervose (molte di più che nel midollo spinale) organizzate in una fitta e complessa matrice dal cui funzionamento dipendono le principali funzioni digestive. Il sistema nervoso enterico è indipendente dal cosiddetto cervello, ma al tempo stesso ne è parte integrante perché gli trasmette le sensazioni e gli stimoli provenienti dall’intestino, facendoci apprezzare la gioia di un pasto prelibato, oppure come dimostra lo studio su nature, provocando sensazioni spiacevoli in alcuni soggetti”.
Chi soffre di sindrome dell’intestino irritabile, manifesta sintomi molteplici: oltre al dolore addominale, una caratteristica comune, alcuni soggetti lamentano “irregolarità dell’alvo con diarrea – ancora Sarnelli -stipsi o alternanza di entrambi”. In altri soggetti possono essere presenti disturbi come “gonfiore addominale, meteorismo, nausea e difficoltà nella digestione”.
Sebbene abbia una maggiore incidenza nel genere femminile, la Sindrome dell’intestino irritabile colpisce sempre più spesso giovani adulti. “Negli ultimi anni – afferma Sarnelli – abbiamo assistito ad un velocissimo e radicale cambiamento delle abitudini alimentari e della qualità degli alimenti. Sebbene resti da stabilire un chiaro nesso di causalità, è evidente come l’aumento dei sintomi indotti dal pasto sia correlabile all’evoluzione delle tecniche di lavorazione dei prodotti agroalimentari. A questo parallelismo va anche aggiunto che nell’intestino è presente un sistema immune che si è perfezionato nel corso dell’evoluzione per difenderci dalle infezioni gastrointestinali, che oggi si sono drammaticamente ridotte, lasciando il sistema in uno stato di perenne allerta. In parole semplici, vengono introdotti alimenti e prodotti raffinati che, raggiunta la mucosa intestinale, attivano alcune cellule del sistema immunitario le quali rilasciano delle sostanze capaci di stimolare a loro volta i nervi presenti nell’intestino con la comparsa di sintomi”.
Di questa condizione benigna, che all’origine ha spesso una componente psicologica, può soffrirne anche chi non ha mai avuto disturbi intestinali, sostiene l’esperto della Sige che aggiunge: “ Sono state considerate diverse ipotesi per spiegare la comparsa dei sintomi, ma gli studi più recenti indicano che le infezioni gastrointestinali sono la causa scatenante nel 20% circa dei soggetti. Appare emblematica la circostanza riferita da alcuni pazienti i quali, dopo un episodio di gastroenterite acuta (con diarrea e vomito della durata di pochi giorni), lamentano la persistenza cronica di dolore addominale ed alterazioni dell’alvo. Lo studio di Nature conferma questa ipotesi ed individua nell’infiammazione della mucosa intestinale il fattore scatenante in grado di innescare la comparsa dei sintomi”.
È possibile intervenire? “Una patologia multifattoriale come la Sindrome dell’intestino irritabile va trattata con un approccio olistico – ancora Sarnelli -. Le linee guida e il buon senso indicano che il maggiore guadagno terapeutico lo si ottiene stabilendo un rapporto empatico tra paziente e medico, a cui spetta il compito di spiegare in maniera semplice i complessi meccanismi alla base dei sintomi. Successivamente, la terapia potrà essere indirizzata a trattare i sintomi prevalenti, come ad esempio la diarrea, la stipsi e/o il meteorismo, consigliando presidi farmacologici, probiotici e/o interventi nutrizionali mirati. Nei casi più severi, nei quali la componente psicosomatica è preponderante, il ricorso alla psicoterapia o l’utilizzo di basse dosi di farmaci serotoninergici (antidepressivi) può essere un’ulteriore risorsa per migliorare i sintomi che impattano in maniera drammatica sulla qualità della vita di milioni di pazienti. Sul fronte prevenzione, invece, è necessario conoscere la causa precisa di una patologia. Trattandosi di una malattia multifattoriale che coinvolge alterazioni della motilità intestinali, fattori alimentari e immunitari, microbiota intestinale e una forte componente psicosomatica, è evidente che le misure di prevenzione debbano necessariamente contemplare ciascuna delle cause elencate”.
Per migliorare la funzionalità intestinale si consiglia di bere molto, praticare una regolare attività fisica e seguire una dieta ad hoc. “Come norma generale, l’abitudine di consumare pasti piccoli e frequenti, variando l’alimentazione ed eventualmente moderando, piuttosto che eliminare del tutto, quegli alimenti che maggiormente risultino fastidiosi, ritengo sia la scelta più saggia da consigliare. Le diete di esclusione, invece, non hanno effetti di lunga durata. Anzi, ma espongono i soggetti ad enormi sacrifici indotti dalla privazione, determinando, in alcuni casi,la riduzione di alcuni elementi e nutrienti essenziali per l’organismo. Inoltre, alcuni regimi dietetici che vengono seguiti, e purtroppo anche prescritti, hanno un’efficacia limitata nel tempo e sebbene i pazienti possano riferire un certo miglioramento questo è da imputare più ad un effetto placebo che ad un reale effetto terapeutico”.
Cosa comporta una dieta gluten-free se non si è affetti da celiachia? “Stando a Google, la dieta gluten-free è tra le più trendy al mondo – ricorda Sarnelli – ed è seguita anche quando non indicata. La letteratura scientifica ha chiaramente dimostrato che questa dieta non è efficace nei soggetti affetti da Sindrome dell’intestino irritabile; inoltre va aggiunto che gli alimenti gluten-free sono più calorici e questo può determinare un aumento del peso corporeo”.