Coronavirus, “non dimostrato legame con smog”

C’è una relazione tra inquinamento atmosferico e coronavirus Sars-Cov-2? “No, sono necessarie ulteriori ricerche sull’argomento”. A fare chiarezza su cosa si sa al momento rispetto a questo ipotetico legame sono i ‘dottori anti-bufale’. Il tema viene trattato nello spazio ‘Dottore, ma è vero che?’, piattaforma anti fake-news della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo).  

Tutto nasce, spiegano gli esperti, da un documento della Società italiana di medicina ambientale (Sima) che parte da una premessa: “Il particolato atmosferico (Pm10, Pm2.5) costituisce un efficace vettore per il trasporto, la diffusione e la proliferazione delle infezioni virali”. Nel testo – un position paper – si parla di relazione diretta tra il numero di casi di Covid-19 e l’inquinamento dell’aria nella zona dove quei casi si sono manifestati. In altre parole: quanto più l’aria è inquinata, tanto più numerosi sono i contagiati.  

I firmatari spiegano che si tratta di una “deduzione” basata su una “sintetica introduzione e rassegna scientifica”. Noti ricercatori hanno espresso un parere sulle conclusioni della Sima. La Società italiana di aerosol (Sia) ha ricordato che l’esposizione ad alte concentrazioni di particolato aumenta la suscettibilità a malattie respiratorie croniche e cardiovascolari e che questa condizione può peggiorare la situazione sanitaria dei contagiati. 

Alte concentrazioni di smog si osservano frequentemente nel Nord Italia, soprattutto nella pianura Padana, durante il periodo invernale, viene fatto notare. “Tuttavia, ad ora non è stato dimostrato alcun effetto di maggiore suscettibilità al contagio alla Covid-19 dovuto all’esposizione alle polveri atmosferiche”.  

La Sia analizza anche il passaggio in cui si parla della possibilità che il particolato atmosferico possa agevolare il trasporto del virus aumentando di conseguenza il ritmo del contagio: “Questo aspetto non è però confermato dalle conoscenze attualmente a disposizione, così come non sono ancora del tutto noti il tempo di vita del virus sulle superfici e i fattori che lo influenzano”.  

Sul tema si è espressa anche la Rete italiana ambiente e salute (Rias), secondo cui “questa ipotesi non sembra avere alcuna plausibilità biologica. Infatti, pur riconoscendo al Pm (particolato atmosferico, ndr) la capacità di veicolare particelle biologiche (batteri, spore, pollini, virus, funghi, alghe, frammenti vegetali), appare implausibile che i coronavirus possano mantenere intatte le loro caratteristiche morfologiche e le loro proprietà infettive anche dopo una permanenza più o meno prolungata nell’ambiente outdoor”.  

Temperatura, essiccamento e Uv danneggiano l’involucro del virus e quindi la sua capacità di infettare, sostengono gli esperti. “La diffusione non corretta di tale ipotesi, non suffragata da evidenza scientifica, può essere molto fuorviante nella comunicazione del rischio alla popolazione”.  

Gli esperti anti-bufale puntualizzano però che “sarebbe opportuno” studiare il possibile rapporto tra inquinamento atmosferico e Covid-19 “in modo metodologicamente rigoroso”, così da avere “una risposta adeguata e tempestiva e contribuire al progresso della conoscenza per la sanità pubblica”. Non sono studi semplici. Come spiega la Rias, occorre considerare numerosi fattori, dall’età di chi vive nell’area sotto analisi alle misure di contenimento di Covid-19 adottate. Altro elemento è “la forte probabilità di confondere un’associazione con una correlazione”.  

In un territorio in cui per buona parte dell’anno lo smog è elevato può aumentare il numero di persone sofferenti di patologie respiratorie nelle quali, qualora contagiate, la malattia può avere un decorso più grave. “Ma l’inquinamento atmosferico non può essere considerato la causa della Covid-19”. La ricerca è al lavoro, con “centri molto qualificati” che hanno già prodotto dei risultati, ancora allo stato di pubblicazioni preliminari, “come nel caso della ricerca della Scuola di sanità pubblica dell’università di Harvard”.