Umanità, ascolto, informazioni e soprattutto parole di conforto. Chiedevano questo le persone, soprattutto all’inizio e nel pieno dell’emergenza Covid-19, “e noi siamo stati un punto di riferimento sul territorio, spesso l’unico. Siamo stati i soli ‘camici bianchi’ disposti a dispensare non solo farmaci, ma attenzione”. A parlare all’Adnkronos Salute è Andrea Raciti, titolare di una farmacia di Alzano Lombardo, tra i comuni della Bergamasca duramente colpiti dall’epidemia, che dalla sua farmacia, proprio di fronte all’ospedale, ha vissuto in prima linea l’emergenza. Una crisi “in cui i farmacisti – denuncia – sono stati lasciati soli, ma che ha evidenziato il ruolo sanitario primario di questa figura, che le istituzioni ora devono valorizzare”.
Raciti ricorda i primi momenti drammatici, dal “23 febbraio quando tutto è iniziato, quando la progressione dei contagi andava di pari passo con la paura delle persone e nessuno dava risposte, nonostante la situazione fosse già compromessa, fino ai primi giorni di marzo in cui tutti pensavamo si arrivasse alla chiusura in zona rossa, sorprendentemente mai avvenuta. Io ero in farmacia, nei giorni per intenderci quando fu chiusa l’Italia – racconta Raciti – ed eravamo assaltati da persone che stavano male, chiedevano ossigeno, farmaci, ma anche solo rassicurazioni, mentre davanti a noi vedevamo uscire dall’ospedale 2-3 carri funebri al giorno. Era uno scenario apocalittico perché, mentre da noi arrivava gente terrorizzata, ce n’era altra di passaggio, che magari veniva dalla città, che girava come nulla fosse perché nulla era stato chiuso”.
Non dimentica il farmacista di Alzano Lombardo “quella giornata surreale: c’era il sole e la gente mangiava il gelato in piazza mentre da me c’erano persone disperate perché non avevano l’ossigeno (ero stato tutta la notte a cercare di procurarmelo) e di fronte sfilavano le salme nei carri funebri”.
E ancora, prosegue il farmacista nel racconto: “Gli studi medici dal 23-24 febbraio ricevevano solo per telefono, noi non abbiamo mai chiuso e la gente aveva noi come riferimento per chiedere informazioni, ma anche confessare le proprie paure o la disperazione per un parente morto o ricoverato che non potevano vedere. L’ospedale infatti era stato chiuso, riconvertito tutto in Covid, molti medici erano stati contagiati, anche le guardie mediche erano solo telefoniche, ma le persone continuavano a sentire in tv ‘si va avanti, le città non si fermano’. Era tutto surreale e lo è stato dal 23 febbraio al 7-8 marzo, perché la macchina burocratica – denuncia con amarezza – si è messa in moto solo dopo il 10 marzo. Prima era come se nulla fosse, nonostante non si trovassero mascherine, gel per le mani, saturimetri (io ne vendo 4-10 in un anno, in una settimana ne ho venduti 40)”.
In questa emergenza “noi farmacisti – riflette Raciti, che è anche consigliere di Federfarma Bergamo – abbiamo avuto la grande capacità di cambiare in poco tempo e di adeguarci per far fronte al bisogno, lasciando da parte turni, orari, garanzie. Nessuno di noi poteva dire di no, anche a richieste all’apparenza fuori luogo, come quella di una tinta per capelli. Ma io sapevo che erano spesso una scusa, un modo per parlare con un sanitario, per sentirsi rassicurato, insomma era qualcosa che faceva stare meglio e distraeva dall’atmosfera di morte che vivevamo ogni giorno”.
“Io sono esperto in omeopatia, la medicina dell’ascolto per antonomasia – sottolinea – e questo mi ha aiutato molto in questa emergenza, perché il mio approccio è sempre stato quello di mettere al centro l’uomo con le sue problematiche. L’approccio omeopatico, al di là della terapia che poi si seguirà, ci ha insegnato quella metodologia anamnestica che mette al centro l’individuo con le sue paure, le sue angosce, oltre alle problematiche fisiche, come dovrebbe accadere in qualunque forma di medicina. Tutto questo mi ha aiutato a capire, spesso tra le righe, qual era la paura della persona che avevo davanti e quale poteva essere in quel momento la soluzione migliore da proporgli, che non era necessariamente un farmaco o un integratore ma anche solo una rassicurazione o un consiglio”.
“Mi ha sempre dato fastidio – aggiunge Raciti – vedere colleghi discutere su aspetti contrattuali e commerciali della farmacia, che per carità ci devono essere, perché non siamo Onlus, ma ditte private che devono fare profitti per se stessi e per pagare i dipendenti, ma bisogna capire come ottenere questo profitto: lo si può fare da sanitario o da commerciante. Io credo che a noi farmacisti spetti il compito di cercare la ‘soluzione’ migliore per guarire o migliorare la qualità della vita delle persone che abbiamo davanti. Ed è anche lo spirito che guida l’omeopatia: cercare la migliore cura possibile, omeopatica o meno, per quella persona, per quel paziente che non è detto sia uguale a quello successivo”.
In questa crisi sanitaria “ci siamo trovati a fare di tutto, dimostrando che la farmacia italiana è ampiamente in grado di assolvere mansioni che in parte le sono negate, ad esempio la gestione dei pazienti cronici, la comprensione dell’andamento della terapia, perché sono persone che conosciamo bene, li vediamo quasi tutti i giorni, si tratti di diabetici o ipertesi o altro”. Perché tutto “parte dal territorio, ma poi quando ci si allontana lo si dimentica. Pensiamo all’elezione del politico di turno, del rappresentante sindacale o di Ordine professionale: lo si elegge perché si conosce e ci si fida di lui. Poi più questo sale di grado, più si allontana. Ciò si è visto plasticamente in questa crisi, con le istituzioni che ci hanno lasciati soli, mentre la burocrazia è rimasta la stessa. Nessuno è mai venuto da noi, tranne la Guardia di Finanza e i Nas per controllare i prezzi delle mascherine”.
“Nessuno – sottolinea ancora – ha ascoltato o dialogato con i farmacisti come esperti del territorio, mostrando quanto poco le istituzioni lo tengano in considerazione. E’ questa la lezione che la politica dovrà imparare dall’emergenza che stiamo vivendo”. Il futuro Ssn nel dopo-Covid, secondo Raciti “dovrà dunque ascoltare più il territorio e la voce dei farmacisti, che insieme ai medici di base sono i primi e i più a contatto con le persone, perché le farmacie – ironizza – sono in fondo dei grandi ‘confessionali’. Invece oggi vengono date per scontate ma, come accade sempre, quando si perdono ci si rende conto del loro valore”, conclude, lanciando una domanda: “Se tutte le farmacie fossero rimaste chiuse durante questa drammatica emergenza, cosa sarebbe successo?”.