Un amore e una devozione che nascondono un lato ben più sinistro
Gli antichi egizi amavano molto i gatti. Possiamo anzi dire, senza temere di esagerare, che ne fossero quasi ossessionati. Statue, gioielli, allevamenti e mummificazioni: la devozione di questo popolo per i felini ha superato le barriere del tempo ed è arrivata fino a noi millenni più tardi. Ma che cosa c’era alla base di questo amore smisurato per i gatti? Lo storico greco Erodoto riporta che addirittura gli egiziani si rasavano le sopracciglia in segno di rispetto quando erano in lutto per la morte di un gatto di famiglia.
I gatti nelle case degli egizi avevano più che altro lo scopo di cacciare i topi e i serpenti, ma sbaglieremmo a ridurre solo a questo l’amore di tale popolo per i felini. Secondo loro infatti gli Dei avevano “qualità feline”: se da un lato erano protettivi e leali, dall’altro potevano essere anche combattivi, indipendenti e feroci. I gatti allora agli occhi degli egizi sarebbero stati la personificazione delle divinità, da amare certo ma anche da temere al tempo stesso. Un amore così forte che gli antichi egizi chiamavano o soprannominavano i loro figli con i nomi dei felini di casa. Il più gettonato sembra fosse Mitt, che significa gatta.
Chiaramente i gatti venivano pure sepolti. La sepoltura più antica di un gatto rinvenuta fino a oggi risale al 3800 avanti Cristo. Da alcune ricerche però emerge questa ossessione per i gatti aveva anche un lato ben più sinistro e macabro. Negli scavi infatti si sono trovate prove di antichi allevamenti, probabilmente da uccidere e mummificare in tenera età per essere inseriti nelle tombe dei più ricchi come mezzo per placare o chiedere aiuto alle divinità.
Lo dimostrano anche le radiografie svolte sulle mummie dalla Swansea University, in Gran Bretagna. “Davanti all’immagine ai raggi x ci siamo resi conto che c’era un gatto morto molto giovane: dalla conformazione ossea, aveva meno di 5 mesi e il suo collo era stato deliberatamente rotto”, spiega il professor Richard Johnston. “È stato uno choc”.