“E’ vero che non conosciamo tutti i casi sommersi. Su questo non c’è dubbio e possiamo solo fare stime con i modelli matematici. Per questo però è stato pianificato uno studio di sieroprevalenza nazionale, per capire quante sono le persone che si sono infettate fino ad oggi. Quindi valutare il rapporto tra persone sintomatiche e persone infette. Stimiamo che il nostro sistema di sorveglianza sia in grado di catturare il 5-10% del totale delle infezioni, ma è chiaro che in alcune regione e aree del Paese il problema è molto maggiore”. Lo ha rimarcato Gianni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, ospite di ‘Mezz’ora in più’ su RaiTre, insieme ai colleghi Massimo Galli e Andrea Crisanti. Rezza ha risposto alle osservazione di Crisanti sulle lacune nel sistema di monitoraggio dei casi sommersi di Covid-19.
“Siamo molto preoccupati – ha evidenziato Rezza – io ho tenuto la stessa linea e continuerò a tenerla. Questo è un virus che proseguirà a circolare nella popolazione finché non avremo il vaccino. Per cui dovremmo stare sempre molto cauti. Cerchiamo di evitare contraddizioni tanto per farlo – risponde al tentativo di creare polemiche con i colleghi – ma collaboriamo per capire come fare a ridurre la velocità di circolazione di questo virus. E su questo sono completamente d’accordo con Crisanti, dobbiamo essere pronti e capaci di reagire sul territorio”.
“I virus respiratori diminuiscono la loro incidenza e il loro impatto durante la stagione estiva perché naturalmente succede quello che ora stiamo causando in maniera invece artificiale, ovvero il distanziamento sociale. D’estate non si va più al cinema, a teatro, a scuola, chiudono gli uffici e si vive più all’aria aperta”, ha sottolineato poi Rezza commentando quanto detto oggi da Sylvie Briand, direttore del dipartimento per la gestione dei rischi infettivi dell’Oms, ovvero che “il caldo e la vita all’aria aperta potrebbero limitare il contagio”. Sugli effetti del caldo sul virus i tre esperti concordano che “non ci sono evidenze”.
“E’ evidente che la situazione è diversa da regione a regione e che è clamorosamente mancato, lo abbiamo detto da tempo, l’intervento sul territorio, con qualche eccezione come il Veneto. L’emergenza non è finita, dobbiamo trovare il modo per gestire la riapertura e la convivenza con questo virus. E per questo sono preoccupato che in regioni dove l’epidemia è stata limitata, ci sia stato meno controllo territoriale dei contagi e dei contatti, che ora avrebbe rappresentato un ulteriore elemento di sicurezza”, ha detto dal canto suo Massimo Galli, direttore del reparto di malattie infettive all’ospedale Sacco di Milano. In Lombardia, ricorda, nelle scorse settimane molti contagi sono avvenuti in famiglia. “Ora stiamo passando da un intervento drastico di chiusura, semplice nelle caratteristiche e pesante nelle conseguenze, ma che ha ottenuto validi risultati – avverte – a una situazione in cui apriamo, con la regola della ‘mascherina, guanti e distanza’, e una forte speranza nello stellone. Questo è un limite oggettivo, poteva, doveva e deve essere fatto di più, come definire i contagi nelle famiglie e i loro contatti. E questo non lo si è fatto nemmeno sperimentalmente. Ora si torna al lavoro, ma bisogna che sia fatto con determinate regole e certezze sul monitoraggio dei lavoratori”.